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Aug, 2024

Papà quando avremo una casa? – Lorena Fornasir

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Scendono le stelle nella piazza del mondo oltre una cert’ora. Occhi neri brillano come piccoli astri, perle di rara bellezza che scrutano da un angolo angusto la piazza sconosciuta in cui sono precipitate. Come le lucciole, se ti avvicini scappano; devi conoscere l’arte dei passi lenti e dello sguardo amoroso in modo che loro ti possano scorgere senza scappare. È così che avviene l’incontro con i bambini della rotta balcanica. Hanno nove, dieci anni, a volte sono più grandicelli. Spesso sono in gruppi di due, tre, mai di più. Accade, a volte, di trovarli completamente soli. Alcuni hanno passato l’inferno. Lungo il loro “viaggio”, mandati in salvezza da famiglie, o quel che di loro resta, vengono stipati per ore infinite – simili a pacchi merce – dentro il bagagliaio di una macchina, ammucchiati piedi contro teste, con bocche che bevono l’aria dai fori praticati ai lati della lamiera. L’Iran prima, la Turchia poi, li sequestra nelle fabbriche di mattoni, di tappeti o di scarpe finché riescono a pagarsi il riscatto della liberazione. Lì finisce un pezzo di storia: così sembra. Dalla Turchia entrano nella terribile Bulgaria. Ogni notte, nella piazza del mondo, risuona cupo il nome Bùlgaria, Bùlgaria, pronunciato con l’accento tonico sulla «ù». Esce da labbra screpolate, ossa rotte, corpi segnati da torture. Pochi sono coloro che riescono ad attraversare le foreste della Bùlgaria senza essere catturati come bestie, azzannati dai cani e scaraventati in prigione per mesi. Nessuno escluso, anche i “minori” marciscono in luride fosse chiamate jail per poi essere rigettati sul confine terroso e aspro con la Turchia.

Se sopravvivi a tutto questo, sei semplicemente un fallito che deve recuperare le forze, superare il trauma, ritrovare uno zaino, delle scarpe, un po’ di cibo e sfidare il destino.
Da quest’altra “stazione” della vita ricomincia il micidiale “game”, il camminamento, altrimenti chiamato “gioco” di vita o di morte.
Intanto aumentano i morti lungo la rotta balcanica. I fiumi portano gli echi dei dispersi, ma anche dalle fosse di dolina sale il lamento lacerante di chi, per scappare ai mastini d’assalto della polizia croata, cade e rimane seppellito nel fondo del buco.
Seduti nella panchina della cura, i ragazzi un po’ mostrano le foto del loro “viaggio” mentre bevono l’acqua di fango in cui si sono abbeverati anche i maiali selvatici, un po’ si lasciano sfuggire parole che parlano di sequestri di gruppo e sevizie. Una babele di lingue ricopre i loro racconti e a “Bùlgaria police” si aggiunge “Croatia police”.
Voci, tonalità, frammenti, sconfinamenti, perimetri di strada, ritagli da una pratica della cura che nella “piazza del mondo” è dedita a corpi e anime ferite. L’assedio della “banalità del male” precipita in questo luogo di passaggio, a testimonianza di un tempo storico segnato dalla violenza dei confini.
Tra mani che curano e piedi feriti, passa il confine e le sue tracce di una rotta disumana.
Prevale su tutto la sorgente inesauribile del desiderio di vita. L’incontro con queste vite dimidiate ha un sapore sorgivo: reca in sé un atto implicito, non dichiarato, che è il “riconoscimento”. Sorta di “credito” relazione ma anche di “restituzione”, è l’investimento in una persona che i confini hanno disumanizzato rendendolo uno scarto umano o, come ebbe a dire qualcuno, un “carico residuale”.
È qui, nel cuore di questa piazza, che il legame tra persone, pensieri, emozioni e saperi, si fa matrice della politica ossia spinta di comunità. I corpi vivono, si muovono, giocano, cantano, mettono in comune doni e non muri.
“Un corpo chiama, un corpo risponde. Un corpo chiede con la sua mera esposizione, prima che con le parole” [1].

Da questo appello, da questa sorgente nasce la politica: la vita come pienezza della relazione, fiducia, reciprocità. La “cura” dell’altro è l’arte di semplici gesti, di una mano che si porge, di uno sguardo che accoglie, di scarpe e vestiti per cambiarsi. In questa piazza del mondo, laboratorio di socialità e creatività, sono nati i “fornelli resistenti” che da ogni città o paese d’Italia, portano da mangiare in grandi pentoloni. I ragazzi giunti dalla rotta balcanica ma, anche chi ancora non è riuscito a proseguire verso il nord Europa o è in attesa di entrare in camp, si dispongono disciplinatamente in fila aspettando il turno per ricevere un piatto di cibo. In questi tempi in cui i rumori della guerra si fanno sempre più forti e la fame viene usata come arma di distruzione, “dare da mangiare” è un atto di vita.
Nulla, tuttavia, potrà mai ricambiare il tempo sottratto, gli anni di vita spesi fra campi e respingimenti, il tempo dell’infanzia perduta alla ricerca di un angolo di mondo dove trovare la pace.
“Papà quando andiamo in una casa? Voglio avere una casa!” chiede con voce strozzata un bambino curdo giunto nel pieno della notte.
“Dove siamo? Come si chiama questo posto” chiede il padre. Trascina con sé i suoi figlioletti mentre la mamma, sfinita, si accascia su una panchina della piazza.
La scena è simile tutte le notti, nulla di nuovo sotto il cielo stellato di Trieste.
Voltare le spalle alla “piazza del mondo”, lasciare bimbi sfiniti dormire sui telini dorati con madri e padri che li vegliano mentre decine di altri corpi sono stesi tutt’attorno, è il gesto più difficile e doloroso della notte che volge ad altro giorno. Le stelle intanto cadono giù.

[1] Gian Andrea Franchi, Il diritto di Antigone, pag15, ed Ombre Corte

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Lorena Fornasir, Psicologa clinica e psicoterapeuta, esperta in genitorialità adottiva e infanzia abbandonata, ha diretto l’Area Provinciale delle Adozioni dell’Azienda Sanitaria di Pordenone.
E’ stata Supervisore dell’Area di Accoglienza Familiare dell’Arcobaleno occupandosi della formazione delle famiglie di sostegno-affido e dei corsi sull’affidamento familiare.
Nel 2019 ha fondato Linea d’Ombra ODV per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica o ovunque ci sia bisogno.

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