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Jul, 2020

“Chiunque nel giustificato timore”, riflessioni dalla rotta Balcanica – di Lorena Fornasir

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In questo spazio dedicato alle testimonianze di solidarietà “oltre i confini” geografici e mentali, condividiamo l’intensa testimonianza di Lorena Fornasir. Qual è il diritto delle persone in cerca di pace? quali sono i traumi generati dalla disgregazione personale e familiare? Quali sono i valori della solidarietà e della cura di una persona. Grazie cara Lorena.

“Non mi interrompere continuamente” esclamò con severità il comandante dell’uovo spaziale
“come stavo spiegandovi, noi dobbiamo trovare questo Gino e gli altri…per educarli come si deve”.
“Cosa, cosa?” fece il professore “forse noi non li educhiamo bene i nostri bambini?”
“Mica tanto” rispose il comandante
“primo, non li abituate all’idea che dovranno viaggiare tra le stelle;
secondo, non insegnate loro che sono cittadini dell’universo;
terzo, non insegnate loro che la parola nemico, fuori della Terra, non esiste (…)”.
Gianni Rodari – Favole al telefono, Il pulcino cosmico.

Per primi ho notato loro: i suoi piedini. Congelati!

Avevano visto la luce in un desolato campo profughi della Turchia. I suoi genitori, siriani di un villaggio bombardato vicino ad Aleppo, l’avevano messo al mondo ed erano ripartiti giungendo nel terribile campo di Mitilene in Grecia; erano poi risaliti su per l’Albania, il Montenegro, la Serbia fino alla Bosnia. Per venti volte avevano tentato il “game” (“il gioco” come è chiamato il tentativo di superare il confine con l’Europa: se lo vinci sei vivo, se lo perdi puoi anche morire) e per venti volte erano stati crudelmente respinti. Avevano conosciuto il gelo della foresta, le urla della polizia croata, l’abbaiare feroce dei cani d’assalto, il sequestro per 36 ore nel garage della polizia di Korenica dove erano rimasti fra i loro escrementi, privi di acqua e latte. Il piccolo Omar, all’età di un anno ha visto il padre crudelmente picchiato e umiliato dalla polizia che li ha scovati – come prede da caccia – nei boschi della Croazia. Con i genitori ha conosciuto altri venti giorni di detenzione nella prigione di Spalato, lasciato senza pannolini e privato di ogni assistenza nella nuda cella. Era infine giunto a Trieste in una fredda sera di febbraio quasi congelato, le sue manine erano ghiaccioli che si potevano staccare, i piedini bluastri, il visetto pallidissimo. L’abbiamo accolto. Giorni dopo è ripartito, ancora malaticcio, alla volta dell’Olanda dove i suoi genitori avrebbero fatto la richiesta di asilo.

Come lui, altri bambini ma soprattutto “minori non accompagnati”, sono mandati dalle loro madri “in salvezza” affinché non diventino bambini soldati o semplicemente per avere un futuro. Dal Medio Oriente devastato dalle guerre ma anche dal nord Africa, o dalle povere terre della Kabilia, assieme ad altri giovani partono gli adolescenti con in tasca 2 centesimi. Quasi subito diventano prede di tristi traffici. Li ho incontrati in tanti campi profughi, vestiti di stracci e gli occhi pieni di una nostalgia incolmabile. Occhi neri, scuri, brillanti di dolore, quasi tattili, occhi che non ti lasciano, occhi che cercano qualcosa di perduto. Non possono tornare indietro, non possono andare avanti. I confini sono feroci, non risparmiano nessuno. Le loro madri hanno venduto tutto, anche la mucca con cui si sostenevano, per mandarli in questi viaggi della speranza e loro, ora, non possono fallire. Portano addosso, nell’anima e nel corpo un mandato familiare che non lascia appello: quello di lavorare e mandare i soldi a casa per pagare il debito del loro viaggio e poi il debito del debito poiché nel frattempo le famiglie si sono ulteriormente impoverite. Le loro vite hanno spesso toccato la soglia con la morte o con lo sfruttamento sessuale. Uno spasmo di energia traumatica li spinge a diventare ciechi di fronte ai propri limiti. Tentano e ritentano il “game” poiché non hanno altra scelta che vivere o morire. L’odore del trauma lo si respira stando accanto ai loro corpi di dolore che tutto hanno assorbito: la paura e l’angoscia si sono pietrificate, le emozioni si sono congelate e hanno lasciato il posto ad una sorta di anestesia affettiva. Reprimono il dolore delle vesciche scoppiate come vulcani e ripetono “tutto bene”. In effetti, quando arrivano, sono vivi, non sono morti in un fiume o ammazzati di botte. Il cellulare, quando non gli è stato rubato, è stato l’unico mezzo per orientarsi nei boschi e anche l’unico filo per mandare un segnale alla famiglia.

Ci guardano, pur essendo poco più che bambini, con quel fulgore febbricitante che parla della fatica di vivere, della lontananza, della malinconia. Ali, 18 anni, non ha un telefono per dire a sua madre che è vivo. Il suo sguardo: lucido, dolente, forte, che non arretra, ci guarda dentro. I suoi occhi sono uno specchio che scopre la nostra nudità e mostra la nostra paura. Come lui, altri volti dei rifugiati, soprattutto quando muoiono, a volte annegati nel desiderio irrinunciabile di entrare in Europa, non compaiono in nessun scenario. Sono volti da non guardare. Morire o vivere senza volto è il disumano della nostra indifferenza, è il vuoto di umanità della nostra società impoverita di valori.

Alì, Omar, Ahmad e i tanti migranti che incrociamo nei nostri percorsi sono simili alle figure perturbanti del nostro inconscio, quindi da rimuovere. Abbiamo consegnato la nostra terra alla parte oscura e sconosciuta di noi, permettendo che l’indifferenza e la banalità del male distruggano i valori della solidarietà e dei legami comunitari.

Quando dei bambini hanno perso l’infanzia, quando non sanno più giocare, quando ritengono normale essere cacciati dai droni e dai cani d’assalto, essere catturati e imprigionati anche se neonati, quando degli adolescenti giungono stremati, affamati, distrutti dopo aver camminato per 17 o 20 giorni nei boschi per arrivare in un Paese dove fare la domanda di asilo, credo che abbiamo fallito tutti.

E’ stravolto il diritto internazionale che prevede la protezione per chi scappa da guerre e devastazioni o, comunque, per chi ha “giustificati motivi” per chiedere asilo in altro Paese; è perduta la nostra umanità che riduce i migranti a degli invasori e rende esseri umani vulnerabili meri numeri da statistica. Solo una voce si può levare ed è la voce della solidarietà. Quando una madre dal lontano oriente mi chiama per ringraziarmi con calde lacrime di aver aiutato suo figlio, il legame che unisce la maternità fiorisce nel gesto semplice ed umile della solidarietà. Noi abbiamo sacra la vita e possiamo accogliere un invito che proviene da lontano, dalle madri di Plaza de Maja: “mettersi al posto dell’altro” e chiedersi “se io fossi lui?” “se lui fosse mio figlio?”. La cura comincia da qui, dal gesto semplice di sentire che l’altro potrebbe essere noi.

Lorena Fornasir, Psicologa clinica e psicoterapeuta, esperta in genitorialità adottiva e infanzia abbandonata, ha diretto l’Area Provinciale delle Adozioni dell’Azienda Sanitaria di Pordenone.
E’ stata Supervisore dell’Area di Accoglienza Familiare dell’Arcobaleno occupandosi della formazione delle famiglie di sostegno-affido e dei corsi sull’affidamento familiare.
Nel 2019 ha fondato Linea d’Ombra ODV per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica o ovunque ci sia bisogno.

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“Chiunque nel giustificato timore”, Convenzione di Ginevra del 1951 Cap 1 art 2

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